Faccio una premessa provocatoria: il mercato del vino, per me, è basato sull’offerta più che sulla domanda. Inutile stare a rincorrere le mode se poi prima d’impiantare un nuovo vigneto, prima che questo entri in produzione, prima che da questo si possa ottenere un prodotto valido passano anni. E magari allora la moda è già cambiata o sta per farlo. Certo, ci possono essere anche grandi aziende in grado di acquistare uve – o direttamente vino – per assecondare in tempo reale le scelte mutevoli del mercato, e di sicuro sono in tantissimi quelli che ora stanno trasformando i vigneti del nordest in un ingrediente da aperitivo, non sarò certo io a negarlo – ma per il grosso delle aziende vitivinicole, che la necessaria disponibilità (economica) non ha, questa rincorsa finisce per lasciare sempre indietro, sempre a un passo dal traguardo. E, soprattutto, quando passa la moda, si rischia di ritrovarsi le cantine piene e i vigneti privi di identità.
“Però lo fanno lo stesso,” mi diceva la settimana scorsa un piccolo produttore. “Più che altro ci provano,” gli ho risposto. Poi subito dopo l’incontro con Angelo Peretti durante l’Anteprima del Bardolino 2011 (ne ho parlato anche qui) e la scoperta che non sempre questo accade. Da qualche anno Angelo Peretti dirige il Consorzio Tutela Bardolino Doc, arrivato quando di invenduto ce n’era davvero troppo. Oggi, invece, i circa 32 milioni di bottiglie divisi tra Bardolino e Chiaretto non riempiono più le cantine dei produttori. Tempo pochi mesi dall’uscita e nelle cantine c’è di nuovo l’eco. Il motivo di questo successo? Beh, ecco la mia sintesi di quanto spiegato da Angelo Peretti (preciso che i punti non sono in ordine di importanza):
- Identificazione chiara del prodotto, che in questo caso voleva dire tornare al passato (leggi: a quando il Bardolino non era un’imitazione del Valpolicella) e a valorizzare anzi il Bardolino per le sue caratteristiche precise (bevibilità, identificazione col territorio, uso dei vitigni tradizionali – Corvina Veronese in primis, e Rondinella). Questa fase è andata di pari passo con il miglioramento della qualità: l’obiettivo, tornare ai vini di 50 anni fa ma senza gli errori e i difetti di 50 anni fa;
- Valorizzazione del Chiaretto come vino a sé, e non più come Bardolino Chiaretto. Di questa strategia, evidente analizzando il nuovo sito, ne avevo parlato anche qui;
- Motivazione dei soci del consorzio attraverso un attento lavoro di premi e penalità, di concerto anche con le cantine sociali della zona (chi meglio lavora, più viene pagato) ma anche attraverso l’acquisto di spazi sul quotidiano con la foto del produttore. Un po’ come il “dipendente del mese” che si vede in certe catene di ristoranti o alberghi ma con una visibilità – e quindi con una gratificazione – ancora più elevata.
- Ricerche di mercato. Ricerche di mercato, sì, però sia ben chiaro che servivano a individuare un aspetto molto importante. L’obiettivo infatti non era capire cosa vuole oggi il consumatore per fare un prodotto corrispondente a questi bisogni, ma individuare, date certe caratteristiche di prodotto, qual è il consumatore che può volere quel tipo di prodotto e strutturare la proprio strategia per andare a colpire questo target.
La differenza sta tutta lì: non si rincorre, si cerca di capire. Così nel giro di 3-4 anni le cantine si sono svuotate e i prezzi – pur mantenendo una notevole concorrenzialità – sono raddoppiati. Si è puntato dunque a un’immagine più definita, unica, facendo scelte che all’inizio potevano sembrare parecchio rischiose, come quella di creare un’anteprima del Bardolino e del Chiaretto, con un grande evento all’interno delle Dogana Veneta di Lazise (e la paura di non riuscire a riempirla) ma che sono servite a rafforzare l’immagine della denominazione anche agli occhi dei ristoratori locali che fino a pochi anni fa il Bardolino non l’avevano neppure in carta. E invece magari quando vedi migliaia di persone a una manifestazione dedicata a quel vino, come è accaduto l’altra domenica, un’aggiustatina agli ordini la dai.