In un’altra vita, di cognome avrei fatto Bukowski o Chinaski, ormai ne sono quasi certa. Uno sguardo un po’ cinico ce l’ho da quando avevo 4 o 5 anni e i miei spendevano tutti i soldi che non andavano nel mutuo della casa per mandarmi all’asilo privato inglese pieno di bimbi figli di dipendenti della FAO che non pagavano la retta perché a loro veniva pagata con le nostre tasse. Così a distanza di un po’ di anni – pochi, mi raccomando – un certo spirito di osservazione mi è rimasto. Lo stesso spirito che ieri mi ha permesso di andare al Roma VinoExcellence – falange del Merano Wine Festival – e apprezzare la possibilità di degustare vini di grandi aziende in tutta calma, senza sgomitate di alcun genere. Con la possibilità anzi di parlare tranquillamente con i produttori, scoprire nuovi vini e non solo. Magari salutare anche un paio di amici (1, 2, 3). E io mi sono anche persa le degustazioni che invece erano il top assoluto della manifestazione. Lo stesso spirito che mi ha permesso di notare ben altro la sera prima.
Il problema infatti è che come nelle migliori storie, quello che a un certo punto ti resta più impresso è quello che è andato male. C’est à dire prima di darti pace che doveva andare così, che anzi è meglio che andasse così e tornare a vedere anche il bello. E la sera prima, beh, la sera prima… In programma c’era una cena di apertura della manifestazione con concerto per violino. Il comunicato recitava “I vini Art de Vignes – autori d’arte e di vino accompagneranno la serata dall’aperitivo al dessert”. Per chi non avesse avuto modo di fare l’accredito come me, il costo della serata era di 40 euro. Del resto dalla comunicazione appariva un’occasione relativamente formale quindi ho infilato il mio tubino nero salva-ogni-situazione ma anche gli stivali, perché parte di me aveva subodorato già che saremmo stati in piedi. Al mio arrivo nella sala laterale del Salone delle Fontane all’EUR – zona che peraltro adoro, perché è sempre stata la zona dei miei inizi, del primo stage, della prima fiera dell’editoria… – mi sono ritrovata davanti una folla che sgomitava: mettete insieme la Roma bene impellicciata e stolata e un po’ di sciccosi vigneron francesi con accompagnatrici, aggiungete quattro, dico quattro, tartine di Palombini, shakerate bene et voilà, avrete un’istantanea esatta di quella serata. Gente che si piazzava davanti alla zona tartine e, una volta raggiunta la meta e puntata la bandierina non si staccava neppure a portarla via col carro attrezzi. Uomini finti galanti che facevano il pienone di tartine per le loro dolci metà piantandoti un gomito nel fianco e girandolo per bene. Donne dalle braccia sinuose che s’infilavano in ogni dove e, alla cieca, puntavano l’ambita tartina tirandola via con un movimento secco che intercettava il tuo braccio e soprattutto il tuo bicchiere facendo roteare verso l’aria il prezioso liquido. Perché se paghi 40 euro per un po’ di tartine, allora sei davvero disposto a tutto. E questo con un freddo da congestione.
E nel frattempo si apprestava a iniziare l’evento artistico e lì per quanto mi riguarda c’è stato il vero tracollo. Perché vabbè, alla fine della cena non c’era neppure l’ombra, nella frase “dall’aperitivo al dessert” del comunicato gli organizzatori si erano fermati all’aperitivo. Magari pensavano che stando a Roma poi se ne sarebbero comunque tutti annati a fasse du’ spaghi da qualche altra parte. Però il concerto è stato una pena infinita. Innanzitutto perché all’inizio si sono presentati tutti i produttori di questa associazione, in francese, e l’acustica nei palazzi di architettura fascista con i soffitti altissimi a fare da surrogato di potenza non è che aiutasse. Se aggiungete che nel frattempo c’era ancora chi dall’altra parte sgomitava per le ultime tre tartine e parlava e beveva e parlava ancora, capirete che non si sentiva un bel niente. In più stavamo tutti in piedi, per 40 minuti, un’ora… una roba infinita. Quando finalmente è cominciato il concerto hanno avuto la buona idea di smettere di servire i vini e di togliere i rimasugli di tartine rimaste – strano come la gente si scanni per una tartina in piedi ma appena quella si adagia sul fianco la schifino tutti. Solo allora si è creato un po’ di silenzio (deluso) in sala.
Ora, quel poveraccio del violinista di fama internazionale e del restauratore che si era portato dalla “bottega” uno Stradivari vero, verissimo, non so come l’abbiano presa. Fatto sta che di nuovo i soffitti fascisti non hanno aiutato neppure un pochettino. Per quanto mi riguarda avrebbero potuto suonare un banjo, l’effetto sarebbe stato simile. E, ripeto, quei geni di organizzatori di eventi arte e vino da paesello di provincia hanno pensato bene di non mettere neppure una sedia quindi la me osservatrice cinica vedeva da un lato, attraverso le teste e le spalle di chi era davanti a me, il povero violinista di fama internazionale col suo Stradivari, dall’altro una massa informe di gente che si guardava indietro cercando di capire quando sarebbero tornate le tartine, o almeno avrebbero ripreso a versare i vini, che si guardava intorno per capire se almeno gli altri si stavano divertendo, e si guardava il polso e l’orologio per fare pronostici sulla durata della performance. Certo, uno poteva anche andare lì a fare un po’ di networking salva tutto, ma alla fine, l’unica occasione che personalmente ho avuto è stata quando mi ha abbordata un settantenne con tanto di apparecchio acustico e con fare ammiccante mi ha detto: “Anche lei è una produttrice francese?” Ha fatto pure l’occhiolino. Ah, beh.