Scrivo questo post molto di getto prendendo spunto da questo breve lancio apparso su WineNews e scoperto grazie a un tweet di @eticavitis: lo dicono anche in Francia, “il vino deve essere più accessibile ai consumatori, più comprensibile, meno “esoterico” e meno elitario“. Il fatto è che frasi del genere le sento da anni, non dico da quando ho messo piede in questo mondo – perché i primi passi li ho mossi dentro l’AIS che per posizionamento è più elitaria di altre associazioni – ma probabilmente da quando curo questo blog. Con la Duemilavini è diverso, viene scritta dando per scontato che il lettore-sommelier ha già acquisito una certa proprietà di linguaggio e quindi non ha certo le reazioni del pubblico del TG5 dopo una puntata di Gusto, ma fuori, tutti dicono che bisogna parlare di vino in modo accessibile. Tutti lo dicono ma mi chiedo: chi lo fa davvero? Una manciata scarsa di persone, e solitamente sono quelle che non salgono sulle scatole e urlano al mondo che scrivono per tutti – perché chi scrive per tutti non ha bisogno di dirlo, lo fa e basta.
Ma comunicare il vino in modo comprensibile a tutti non è affatto facile, diciamo la verità. Perché se usi un solo termine tecnico la gente si stranisce, perché anche descrivere un vino parlando solo di emozioni e solo di metafore può essere complicato da capire a volte, soprattutto se la penna è di chi si arroga il diritto di fornire la metafora assoluta, the ultimate metaphora (che va letto con la voce dello speaker che introduceva sul ring i miti del wrestling, mi raccomando)… O meglio, parlare di emozioni – che è bellissimo, niente in contrario – evidenzia l’aspetto soggettivo del vino, ciò che accomuna il vino a un’opera d’arte – e, sia ben inteso, per me il vino non è arte, è artigianato artistico, e a questa distinzione tengo parecchio. Però, come davanti a un’opera d’arte noi attingiamo alle nostre emozioni passate, così lo facciamo anche col vino. La descrizione che ciascuno farà secondo questo canone sarà una descrizione soggettiva e per questo probabilmente ancora più efficace per emozionare, ma al tempo stesso ugualmente rischiosa per comunicare il vino. Un po’ perché tanta gente crede che sia sufficiente usare tre o quattro belle metafore di fila per fare poesia, un po’ perché appunto la metafora può anch’essa non essere sempre semplice da capire. Il resto sta alla scelta di chi scrive. Personalmente, quando scrivo di vino mi piace raccontare anche le persone che lo producono, le mani e la testa che ci sono dietro. Anche se poi nella descrizione di per sé resto più “tradizionale”. Mi piace usare aneddoti ripescati dalla vita del produttore, piccoli fatti che mi hanno incuriosito, perché alla fine di una cosa sono convinta: il vino è la gente che lo produce. Ecco, più che parlare di metafore preferisco gli aneddoti, i piccoli fatti di vita quotidiana che in quel bicchiere di vino finiscono. Non dico che è la soluzione perfetta, è la soluzione mia, quella in cui più mi riconosco e che, si spera, mi viene abbastanza bene da essere comprensibile a tutti.